di Mara Di Maura
“Non so se sono stato mai un poeta e non m’importa niente di saperlo, riempirò i miei bicchieri del
mio vino, non so com’è però vi invito a berlo.” Mai versi potrebbero rendere in modo più efficace e
poetico l’esperienza di varcare la soglia dell’atelier artistico di Nunzio Papotto a Nicolosi quanto
queste parole tratte dalla canzone di Pierangelo Bertoli A muso duro. Sì, perché l’impressione che si
ha nel conoscere questo pittore dalla personalità eccentrica e piacevolmente accogliente è proprio
quella di un amico di vecchia data che t’inviti a bere un nettare unico, quello della sua arte
inconfondibile. Vederlo al lavoro è un vero e proprio rito laico, un tripudio di colori più o meno
sgargianti, di forme geometriche, di pennellate ora aggressive, ora più delicate, attaccate al supporto
con gli strumenti più svariati, dai pennelli, alle pezze trovate a caso in quei minuti mistici di afflato
creativo, alle dita usate come fossero spatole a mischiare tra loro le cromie che diventano, come per
incanto, forme dapprima confuse e poi sempre più definite. Il maestro si muove sicuro perché,
anche se non sa di preciso dove la mano e il cuore lo porteranno, egli sente chiaramente cosa deve
fare e quando deve fermarsi poiché l’opera sta lì, finita e non richiede più che vi si lavori oltre.
Non solo pittore ma anche scultore, poeta e, in alcune occasioni, anche attore. Comincia così la
conversazione con questa figura poliedrica ed affascinante dalla voce calda e dalla risata
coinvolgente.
Come nasce il suo percorso artistico?
Innanzitutto credo che ogni uomo nasca artista poiché tutti noi avvertiamo il bisogno di esternare le
nostre emozioni e pensieri. Poi l’incontro con la tecnica può solo affinare qualcosa che abbiamo
dentro da sempre. Io fin da piccolo mi dilettavo a scarabocchiare ogni cosa, durante gli anni del
militare avevo realizzato le scenografie improvvisate su pannelli di cartone per uno spettacolo
teatrale, ma fu solo negli anni Ottanta che nella mia vita entrò una figura a cui devo molto. In quel
periodo gestivo un negozio di capi in pelle e accanto alla mia bottega aprì il proprio laboratorio il
pittore Cesare D’Angelo con cui nacque subito non solo una bella amicizia ma anche un rapporto di
collaborazione artistica poiché fu proprio lui ad incoraggiarmi e a consigliarmi.
A suo parere l’arte è più tecnica oppure sentimento?
Entrambe ma in equilibrio. Nel mio caso, però, la mia pittura è fatta più di sentimento, sono più un
pittore di pancia. Trovo molto azzeccata la definizione che diede del mio lavoro Salvatore Incorpora
“Egli butta il cervello e con l’animo suo fa l’impasto di colori.” Per tornare a quello che considero il
mio maestro, D’Angelo, proprio lui mi insegnò a comprendere quando una tela andasse completata,
a che punto, insomma, occorresse fermarsi e non aggiungere altre modifiche al proprio lavoro.
Che temi predilige per le sue opere?
I temi più ricorrenti sono i musicisti, ad esempio jazz, ma anche i ballerini, gli artisti in genere, le
prostitute (ad esempio quelle di via delle Finanze nei miei ricordi di ragazzo), talora i migranti, in
ogni caso sempre scene di vita vissuta.
Guardando le sue opere il primo accostamento che viene in mente è Picasso. Lei in quale
corrente si riconosce?
Pensare a Pablo (Picasso) è naturale poiché egli fu il padre di tutti i contemporanei ma io credo di
essere più vicino all’espressionismo tedesco.
Per quanto riguarda la tecnica, invece, ne predilige una?
Un’altra cosa che ho imparato da D’Angelo è che la pittura è simile alla cucina, occorre
sperimentare anche avendo l’audacia di accostare tra loro ingredienti (nel caso della pittura
materiali) diversi. Io impiego tutto per dipingere, acrilici, olio, pigmenti vari, persino l’acqua sporca
o il rossetto possono diventare colore. Stessa cosa vale anche per i supporti. Dipingo su tutto poiché
tutto può divenire arte: carta, tela, porte, finestre, oggetti vari, la ceramica, persino le auto che,
alcune volte, ho trasformato in opere o il corpo, come mi è capitato di fare con il body painting sul
fisico di alcuni performers.
Per quanto concerne la scelta dei colori?
Anche per questo genere di scelta mi lascio guidare dall’istinto, un intuito che mi fa sentire quali
colori mettere l’uno accanto all’altro. Spesso la casualità medesima dei colori dà forma a quello che
è il caso, quindi dal caos nasce spontaneamente l’accostamento giusto su cui poi pratico il mio
intervento. Quasi sempre lavoro con la musica di sottofondo che mi aiuta ad entrare in sintonia con
ciò che faccio, in particolare Billie Holiday ma anche Bertoli, De Andrè, Tom Waits, poiché ho
sempre ritenuto che l’arte nasca dall’arte e che ogni arte possa influenzarne un’altra. Forse anche
per questo ho sperimentato io stesso diversi ambiti artistici, ad esempio prestando la mia voce come
narratore per alcuni videomapping. Credo, inoltre, fortemente nella collaborazione tra diversi artisti.
A tal proposito negli anni Novanta ha gestito l’Officina D’Arte in via Firenze.
E’ stata un’esperienza molto importante. Lì s’incontravano pittori, musicisti, teatranti in una vera e
propria fucina delle arti. Ovunque io vada, tuttora, cerco sempre di creare contatti, legare artisti
diversi, fare incontrare e – perché no?- collaborare i “nuovi romantici”, come ricreando l’atmosfera
di una piccola Montmartre parigina. Secondo me ogni luogo può diventare questo, anche la strada,
per questo amo portare la mia pittura anche on the road, in luoghi generalmente non deputati alla
stessa.
Che sogno coltiva?
Il mio sogno è che ogni città, paese, quartiere possa avere un proprio spazio di libertà, in cui
ciascuno possa sentirsi libero di esprimere sé stesso attraverso quella bellezza che, unendomi al
pensiero di Dostoevskij, credo davvero che possa salvare il mondo, insomma un luogo in cui ogni
persona possa trovare nell’arte il proprio personale rifugio dalla disperazione, dalla sofferenza, la
propria salvezza dal dolore e dalle difficoltà. E’ questa la magia dell’arte, in questo risiede il suo
potere.