Di Mariano Mascena
L’illusione della perfezione
Quando nel 2017 il VAR fece il suo debutto in Serie A, il messaggio era chiaro: «Mai più errori
evidenti».
Sette anni dopo, però, le polemiche non si sono spente, anzi, si sono moltiplicate.
Ogni turno di campionato porta con sé discussioni, sospetti e accuse di “uso discrezionale” della
tecnologia. E quella proverbiale dietrologia tipica del nostro Paese.
La promessa di infallibilità si è scontrata con la realtà: il VAR non è un giudice automatico, ma uno
strumento interpretato da uomini, e dunque fallibile.
Le statistiche dicono che il sistema ha ridotto drasticamente gli errori gravi. Ma l’opinione pubblica,
le società e gli addetti ai lavori percepiscono ancora ingiustizia.
E in un campionato dove ogni dettaglio pesa milioni, anche una decisione corretta ma poco
trasparente diventa un caso.
Il punto che il sistema tecnologico viene ovviamente gestito da un essere umano che, in ogni caso,
rivendica al suo personale giudizio l’ultima decisione.
Serie A: eccellenza tecnologica, fiducia a metà
L’Italia è tra i Paesi più avanzati d’Europa nella gestione del VAR.
Il centro di controllo di Lissone (Monza), collegato con fibra ottica a tutti gli stadi, utilizza il
sistema Hawk-Eye e una rete di fino a 20 telecamere per ogni gara.
Gli arbitri vengono formati con standard internazionali e il protocollo IFAB è rispettato alla lettera.
Eppure, ogni settimana, qualcosa si inceppa: un fuorigioco “geometrico”, un contatto valutato
diversamente da una partita all’altra, un intervento del VAR tardivo o mancato.
Come già detto, non è la tecnologia a fallire, ma l’interpretazione umana.
La “clear and obvious error” – il principio secondo cui il VAR deve intervenire solo in caso di
errore chiaro ed evidente – è diventata il punto più debole del sistema: chi stabilisce cosa è davvero
“chiaro ed evidente”?
Molti allenatori e dirigenti lamentano anche un uso non uniforme del mezzo. Alcune partite
vengono analizzate al millimetro, altre restano nelle mani della sola percezione arbitrale.
E questa oscillazione genera sfiducia.
A gran voce viene chiesto di poter utilizzare la tecnologia anche “a chiamata” cosa che non avviene
in serie A e B ma esiste in serie C con l’introduzione del sistema FVS.
Gli stadi e il paradosso tecnologico
C’è poi un elemento di equità tecnica di cui si parla poco ma che incide molto: non tutti gli stadi
italiani permettono la piena installazione del sistema VAR.
Alcuni impianti, specie quelli più datati o condivisi tra categorie, non dispongono degli spazi o delle
infrastrutture necessarie per ospitare tutte le telecamere previste dal protocollo.
Il risultato è un paradosso: in uno stadio il VAR può contare su venti inquadrature, in un altro su
dodici.
Questo significa che la capacità di ricostruire un episodio controverso non è uguale ovunque.
Non è una questione di software o di arbitri, ma di architettura e cablaggio.
Il problema si riflette anche nelle categorie inferiori. In Serie B la copertura è “light”, con 8-10
telecamere, mentre in Serie C si utilizza il FVS (Field Vision System), una versione semplificata e
ancora in fase di sperimentazione che, però, prevede anche che ciascuna squadra possa effettuare la
“chiamata” per due volte a partita. Se la chiamata è corretta e l’arbitro cambia la propria decisione,
la chiamata non viene conteggiata.
Il risultato è un calcio a più velocità: tecnologico in Serie A, analogico in C.
Il confronto con l’Europa: regole uguali, applicazioni diverse
In Champions League il VAR funziona con una precisione quasi chirurgica.
La UEFA ha centralizzato il controllo a Nyon, dove un hub tecnologico riceve e analizza in tempo
reale i flussi di 12-16 telecamere HD, più due per il fuorigioco tridimensionale.
Ogni stadio rispetta standard uniformi, e ogni arbitro segue lo stesso protocollo operativo.
In Germania, la Bundesliga utilizza un centro VAR a Colonia con criteri di assoluta uniformità; in
Spagna, il sistema Mediapro integra le riprese televisive; in Inghilterra, il VAR è installato in ogni
stadio con la stessa dotazione.
L’Italia eccelle nella competenza arbitrale e nella qualità tecnica del sistema, ma paga un ritardo
infrastrutturale.

La tecnologia c’è, ma non è uguale per tutti.
E nel calcio, dove la giustizia sportiva deve essere percepita prima ancora che applicata, questa è
una differenza che pesa.
La questione della fiducia
Il vero tema non è più se il VAR funzioni, ma se venga percepito come equo e coerente.
La fiducia nel sistema è minata da due fattori: la discrezionalità dell’intervento e la mancanza di
trasparenza.
Alcune leghe, come la Ligue 1 francese o la MLS americana, pubblicano gli audio delle
comunicazioni tra arbitro e VAR dopo i match più controversi.
In Italia, invece, tutto resta nel silenzio della cabina di Lissone.
La FIGC e l’AIA temono che la pubblicazione possa alimentare polemiche.
Ma forse è vero il contrario: la trasparenza è l’unico antidoto alla sfiducia.
La tecnologia può ridurre l’errore, non la diffidenza.
E finché quest’ultima resterà, il VAR continuerà a essere — paradossalmente — la parte più
contestata del calcio italiano.
Un futuro da costruire
Il VAR e il FVS rappresentano il simbolo di un calcio che vuole evolversi, ma che non ha ancora
completato la propria trasformazione.
Senza una rete di stadi moderni, connessioni affidabili e regole applicate con uniformità, la giustizia
tecnologica resterà un’aspirazione più che una realtà.
Il problema, in fondo, non è la macchina, ma l’uomo e il contesto in cui la macchina opera.
Nel calcio come nell’economia, l’innovazione funziona solo se poggia su basi solide e uguali per
tutti.

Fonte foto Social Media Soccer