Dialoghi d’arte: archeologie archetipe nell’opera di Daniela Maria Costa
Nel cuore della città etnea, che si offre alla magnificenza del federiciano Castello Ursino, le geometrie variopinte di Salvatore Barbagallo dialogano con le pennellate di Orazio Gangemi e incontrano le distorsioni metafisiche di Claudio Gelsomino che si perdono negli abissi pittorici dell’austriaco Stefan F. Jausz, in un incrocio di significati e cromie teso a snodarsi fra i corridoi dell’ex Monastero di Santa Chiara. Nell’andirivieni di rimandi storici a segnare le linee del tempo, recuperando quel primordiale impulso vitale impresso in uno studio archetipo puntuale e dotto, si colloca l’opera di Daniela Maria Costa, artista raffinata dall’estro elegante ed essenziale, in cui la trasfigurazione rituale del colore cede il passo lento allo scorrere del tempo impresso nelle proiezioni geometriche di segni a svelare luce e
ombra, pieno e vuoto. Contrari che si ricompongono in un puzzle ermeneutico, il quale trova sintesi nel senso di tutte le cose, espresso in una sola sequenza di suoni e visioni ad incidere la parola VITA, in cui il “loro” incontra il “nostro” e si fonde nella crasi perfetta dell’opera che è generatrice della narrazione di una esposizione nata nel mese del solleone.
” La loro arte: il nostro volto, la nostra voce” è infatti il titolo della mostra che racconta di un incontro fra gli artisti e il curatore Gianni Longo, dove la solarità della professoressa Daniela Maria Costa, docente dell’Accademia di Belle Arti di Catania, è energia pura, collante, come dimostra la sua opera che incontriamo nel cuore dell’allestimento, per ritrovarla ancora a chiusura di un percorso ideato e ideale, costringendoci a fermarci, tornare e ancora avanzare, lasciando impresso negli occhi il sogno archeologico della ricomposizione dei frammenti, della storia, dei significati che si fanno forma, ora materia. Consapevole, frutto di una ricerca meticolosa espressa mirabilmente nella tecnica sapiente, l’opera che chiude il percorso immaginato dal curatore, allo stesso tempo apre la lettura trasversale di un lavoro in cui l’elemento
naturale, la conchiglia, ora la foglia, è espediente della narrazione visionaria di un’artista che rivela nel segno grafico tutta la maestria del suo genio, la sapienza della sua ricerca e la forza della sua formazione. Inizio e fine, dunque, coincidono in un girotondo artistico che fluttua, percorrendo i sentieri ininterrotti di un sogno: il sogno di un mondo guarito dall’arte, sulle orme di Ippocrate che immagina di meritare -in ricompensa, per aver tenuto fede al giuramento- di “godere il meglio della vita e”, appunto, “dell’arte”.
Tiziana Rasà
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