Dal musical alla docenza a Marianna di Leyra: dialogando con l’attrice Barbara Cracchiolo.
Due occhi intensi e dolci al tempo stesso in cui puoi leggervi tanta passione. Inizia così l’intervista a Barbara Cracchiolo, un viaggio dalla danza al musical, dalla docenza al teatro di prosa. Ho incontrato l’attrice al termine dello spettacolo “Marianna De Leyva”, andato in scena il 14 e 15 giugno al Teatro del Canovaccio di Catania e mi ha subito colpito la grande professionalità con cui si è approcciata ad un lavoro tanto complesso.
Come definiresti questo spettacolo?
Il monologo, scritto da Antonella Sturiale è un vero e proprio flusso di coscienza del personaggio che abbiamo imparato a conoscere sui banchi di scuola come la manzoniana monaca di Monza. Sulla scena si assiste, infatti, allo scorrere dei ricordi di vita di Marianna, dalle bambole in abito monacale con cui giocava da bambina al rapporto tormentato con il padre, dalla storia carnale con Gianpaolo (Egidio ne “I promessi sposi”) all’amore per la figlia, affidata alla famiglia del padre, a cui quest’eroina tragica può relazionarsi solo attraverso le epistole. A metà tra il romanzato e lo storico, lo spettacolo si snoda come un vero e proprio percorso psicologico nell’animo della protagonista, costantemente dilaniato da un lato dalla fede in Dio e dall’altro dal fortissimo bisogno fisico dell’amore terreno, come continuamente conteso sia dalla tensione ascetica che dalla travolgente passione fisica e umana.
Come ha avuto inizio il tuo percorso artistico?
Dopo aver frequentato il triennio di formazione attoriale presso il Teatro degli Specchi di Catania diretto da Aldo Lo Castro alla fine degli anni Novanta ho recitato nel cast di un fortunato spettacolo, “E fuori nevica” di Vincenzo Salemme per la regia di Gianpaolo Romania.
L’opera è stata in tourneè in Sicilia per tre anni. Com’è avvenuto l’incontro con il mondo del musical?
Io ho iniziato a danzare all’età di nove anni, quindi quest’arte mi ha sempre accompagnata nella mia crescita. Tuttavia decisivo è stato l’incontro con la Musical Theatre Academy di Roma agli inizi del Duemila e l’aver frequentato a Londra diversi master per diventare insegnante di musical. In seno all’accademia io insegnavo repertorio coreografico e danza. Si tratta di una realtà che per ben quattordici anni – e di questo sono veramente orgogliosa- ha formato performers e docenti di recitazione che attualmente calcano le scene importanti a livello nazionale e svolgono questa professione nel campo dello spettacolo. Qual è la differenza tra la danza e la danza all’interno del musical?
La danza è un insieme di passi che costituiscono una coreografia mentre nel musical essa diventa un linguaggio teatrale che ti permette di portare avanti la storia, lo strumento di una vera e propria narrazione. Non si tratta di teatro-danza, tuttavia.
Nel musical i performers non ballano soltanto ma, mentre lo fanno, cantano e, soprattutto, interpretano un personaggio. E’ qualcosa di estremamente complesso e completo, difatti il musical è una forma d’arte totale che sintetizza e contempla le altre.
Com’è avvenuto il passaggio al teatro di prosa?
Dopo la mia formazione teatrale e diverse esperienze sul palco, mi sono interamente dedicata alla formazione presso la mia accademia di musical come docente di repertorio coreografico, ma sentivo che la mia passione per il palcoscenico era troppo forte, cosicché, dopo la chiusura della Musical Theatre Academy, sono subito tornata al vecchio amore: fare l’attrice. Vieni scelta come attrice dal regista Walter Manfrè per far parte del cast de “La confessione”. Precisamente. In questo spettacolo noto e replicato in tutto il mondo interpretavo il monologo della pornostar. Si tratta di un incredibile format teatrale creato dal compianto maestro Manfrè per spazi normalmente non deputati alle esperienze teatrali, come le chiese sconsacrate, e rigorosamente rivolto a venti spettatori per volta, dieci uomini e dieci donne. Recentemente hai interpretato di nuovo “La confessione”. Proprio così. Nel dicembre dello scorso anno ho recitato nuovamente in questo spettacolo ripreso dal regista Giuseppe Ferlito, stavolta con il monologo “Un peccato, la suora”.
Questo spettacolo, che contiene scritti di autori locali e non, anche estremamente famosi, che hanno appositamente composto i monologhi per il format, ha costituito per me un’esperienza estremamente edificante e formativa.
Quali altri registi hanno segnato il tuo percorso di attrice?
Più o meno negli stessi anni in cui ho fondato a Noto Arkitè, una realtà con cui provavamo a sdoganare il teatro dal teatro portando la messinscena in spazi non preposti alla performance teatrale, ho conosciuto Gianni Scuto. Con la sua regia ho recitato per nove anni in spettacoli impegnati come “Lettera alla madre” da opere di Pirandello, “Diario intimo di una cameriera” di Octave Mirbeau, “Lettera al padre” di Kafka, “Medea”, “Cara compagna” nel ruolo di Nilde Iotti, “Donne e sante”, spesso sul palco accanto alla compianta attrice Nellina Laganà. Quasi contemporaneamente lavoravo anche con Elio Gimbo in opere come “La bottega del caffè” di Goldoni, “Il processo” di Kafka, “Nel nome del padre” nel ruolo della moglie di James Joyce. Spettacoli molto impegnati, dicevi. Come “Libere” per la regia di Cinzia Camiti Nicotra. Questo lavoro è stato molto replicato soprattutto nelle scuole poiché si tratta di storie vere di donne che hanno vissuto la mafia sulla loro pelle da madri, da figlie, insomma come protagoniste di fatti di cronaca. Con la regista Gisella Calì ti lega un rapporto artistico longevo e speciale. Si, come ti dicevo fin dai tempi dell’MTA. A lei mi lega un sodalizio che dura da più di 15 anni. Mi ha diretta in “Alessandrina o i due tempi dell’amore”. Con lei ho recitato in “A birritta cu i ciancianeddi” di Pirandello in dialetto agrigentino per la regia di Sebastiano Cimino. E, ancora, è stata mia regista nello spettacolo “La governante” di Brancati (2024.)
Sempre lo scorso anno sono stata la coreografa del suo “Life is a cabaret”, musical sulla vita di Liza Minnelli. Che problemi riscontri nel campo dello spettacolo?
Purtroppo, troppo spesso il nostro non viene percepito come un lavoro vero e proprio, viene sfruttato, sottopagato ed è molto frustrante sapere che anni ed anni di formazione, gavetta e specializzazione tecnica non vengano riconosciuti e adeguatamente valorizzati al pari di qualsiasi altra professione. Quali sono i tuoi sogni per il futuro nel campo dello spettacolo? Avendo frequentato diversi workshop di cinema ho avuto modo di lasciarmi affascinare da quest’arte e spero di poter trovare presto anche in essa uno spazio di espressione.
di Mara Di Maura
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