La Giungla del Centro Commerciale…a Natale!
Il sabato pomeriggio prima di Natale, visto dopo Natale, assume un valore diverso.
Diventa memoria condivisa, documento umano, materiale quasi antropologico.
Perché mentre ora siamo tutti più rilassati, con i regali scartati e le lucine che iniziano già a
infastidire, c’è stato un momento – preciso, netto – in cui l’umanità ha perso il controllo.
Ed è successo lì: nei centri commerciali, il sabato pomeriggio, pochi giorni prima di Natale.
Io quel giorno entro con un’idea molto semplice, quasi commovente nella sua ingenuità: cambio
una camicia e torno.
Lo dico ad alta voce. Lo dico con convinzione.
È una di quelle frasi che, col senno di poi, andrebbero registrate come prova a tuo carico.
Appena varco l’ingresso, il primo impatto è umano.
Non architettonico, non commerciale: umano.
Intorno a me si muove una fauna riconoscibile.
I mariti sono vestiti bene, “da occasione”, ma hanno lo sguardo spento di chi non ha più voce in
capitolo. Camminano mezzo passo indietro, come delegati senza potere. Le mogli, invece, sono
pronte per una serata importante: trucco, abiti, scarpe che non perdonano. Se le guardi da sole
sembrano dirette a una festa elegante; se le guardi accanto al marito capisci che stanno andando a
comprare maglioni in saldo.
Le coppie non parlano. Al massimo si scambiano frasi funzionali: “Aspettami qua”, “No, di là”,
“Lascia stare”. Il resto è comunicato con sospiri, occhi al cielo, micro-gesti di resa.
Io mi muovo veloce. O meglio: credo di muovermi veloce. Nella mia testa esiste un tapis roulant
invisibile, che ovviamente non c’è, ma io lo immagino perché così faccio prima.
Nella mia mente cammino a velocità sostenuta, fluida, senza intoppi. Nella realtà vengo
continuamente bloccato da persone che si fermano all’improvviso, esattamente davanti a me, per
guardare il telefono, riflettere sulla vita o semplicemente esistere. Ogni arresto improvviso è una
piccola frattura emotiva.
Poi sbaglio.
Sbaglio centro commerciale.
Perché ce ne sono due. Attaccati. Uniti.
Come se qualcuno avesse deciso che non bastava confondere le persone: bisognava farlo con
metodo.
E ovviamente, nei due centri commerciali attaccati, esistono due negozi dello stesso marchio, con lo
stesso nome, lo stesso simbolo, ma regole diverse. Io entro convinto di essere arrivato e invece no.
Devo andare “nell’altro”. Che non è “accanto”, è dall’altra parte di tutto.
Chiedo informazioni. La ragazza dell’info point mi guarda con uno sguardo che non è nel presente.
È già oltre le feste, oltre i saldi, forse oltre questo lavoro.
Mi indica una direzione con la sicurezza di chi non ha alcuna intenzione di approfondire. Io
ringrazio, anche se so che sto per iniziare un nuovo giro dell’inferno.
Riparto. Nella mia testa il tapis roulant immaginario riprende. Sempre alla stessa velocità.
Passo davanti ai negozi che vendono oggetti natalizi inutili: palline strane, cappellini, luci che
funzionano una volta su due.
Oggetti che compri d’impulso e poi, mesi dopo, ritrovi chiedendoti chi sei stato. Avevo pensato di
prenderne uno, di fretta, spendendo pochissimo.
Poi vedo la folla e cambio idea: anche se me lo regalano, no.
Finalmente arrivo. Scopro che il problema è semplice e tragico: Tommy Jeans non è Tommy
Hilfiger. Stessa famiglia, stesso nome quasi uguale, ma negozi diversi. Perché?
Perché qualcuno, un giorno, ha deciso che era una scelta sensata. Io intanto sono immerso in un
caldo irreale. Non è freddo fuori, ma dentro è come stare ai tropici. Sembro in vacanza, solo senza
mare, senza bibita e senza felicità.
Aspetto.
Aspetto ancora.
Dieci minuti che sembrano dieci giorni. Nel frattempo il Natale, simbolicamente, passa. Io tolgo il
giubbotto: non sudavo così dai tempi in cui andavo ai concerti e saltavo sotto al palco. La misura,
finalmente, c’è. Cambio fatto. Sento un momento di orgoglio, breve ma intenso.
Illusione.
Perché manca l’ultimo passaggio: la cassa.
Devo rifare la fila.
Come se stessi comprando ora qualcosa. Sabato pomeriggio. Tardo pomeriggio.
Spiego che ho solo sbagliato negozio, che i marchi si assomigliano. La commessa mi guarda, fa
spallucce. Vorrebbe mandarmi a quel paese, lo so, ma è Natale e tiene la linea.
Davanti a me una coppia sta distruggendo verbalmente un certo Agatino. Colpevole, pare, di non
capire un cazzo. Non so chi sia Agatino, ma so che in quel momento rappresenta tutto ciò che non
funziona nella loro vita. Agatino viene sacrificato senza appello, roba che manco il cotechino.
Guardo l’orologio. Operazione iniziata alle 17.30. Ora sono le 18.13. Penso: non potevano darmi la
camicia e basta? Non la sto rubando. Ma no. Le regole sono regole.
Esco. Sembra finita. Invece no.
Devo comprare il lievito.
Un panetto. Una cosa minuscola. Entro nel supermercato, enorme, senza sapere dove andare. Per
una cosa piccolissima sto attraversando corsie infinite. Mi sento perso. Poi una signora mi vede,
capisce il disagio, intercetta la domanda prima ancora che la finisca. Le chiedo del lievito. Mi dice:
“Mio marito mi ha detto che è qua”. E mi salva.
Ho vinto.
Anche se è passata quasi un’ora da quando avevo detto: “Vado solo a cambiarmi la camicia”.
Raccontato dopo Natale, tutto questo fa ridere.
Vissuto prima di Natale, è stato un percorso iniziatico.
Dimenticavo, non ho subito ritrovato la mia macchina, ebbro di stanchezza e sopraffatto dallo stress
ho sbagliato ascensore, e mi sono ritrovato da un’altra parte ed in un universo parallelo dove esiste
lo stesso parcheggio sotterraneo, ma senza la mia macchia.
Il sabato pomeriggio pre-natalizio non è fare acquisti: è una prova sociale, una commedia umana,
una lunga camminata su un tapis roulant che non esiste ma che, in quei giorni, sentiamo tutti sotto i
piedi.
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