Il grande inganno italiano: una generazione formata per un Paese che non esiste più.
«Ogni società educa i propri figli per il mondo di ieri.»
— Zygmunt Bauman
Questa frase, più di qualsiasi dato statistico, sintetizza la condizione dei nati negli anni Ottanta in
Italia. Siamo stati formati per un Paese che aveva già iniziato a dissolversi. Non per cattiva fede, ma
per inerzia storica.
Abbiamo vissuto l’infanzia in uno dei Paesi più ricchi del mondo, in un’Italia che trasmetteva
ancora sicurezza simbolica: lavoro come orizzonte stabile, istruzione come investimento certo,
progresso come traiettoria naturale. Nel Mezzogiorno, e in Sicilia in particolare, questo messaggio
aveva un valore strategico: studiare era l’unico strumento per compensare una debolezza strutturale
del territorio.
Quel patto aveva funzionato per i nostri genitori.
Per noi, semplicemente, non era più operativo.
La promessa educativa e la rottura del patto sociale
Pierre Bourdieu ha spiegato come il sistema scolastico funzioni da meccanismo di riproduzione
sociale, ma anche – in determinate fasi storiche – da strumento di mobilità. Il problema non è lo
studio in sé, ma la capacità del sistema di assorbire il capitale culturale prodotto.
Negli anni Ottanta e Novanta, il sistema italiano ha continuato a produrre laureati come se il
mercato fosse ancora quello del boom e del post-boom. Ma il contesto era già cambiato. Il capitale
culturale si è inflazionato, mentre il capitale economico e quello simbolico si sono concentrati.
Bourdieu parlerebbe di disallineamento strutturale tra habitus e campo: abbiamo interiorizzato
regole che il campo sociale non riconosceva più.
Nel Mezzogiorno, questo scarto è stato più netto. Qui l’università ha continuato a promettere
emancipazione in un territorio che, nel frattempo, perdeva domanda di lavoro qualificato.
Una generazione cresciuta nella crisi permanente
Ulrich Beck definiva la modernità avanzata come società del rischio, una società in cui le certezze
prodotte dallo sviluppo industriale vengono meno e il rischio viene privatizzato. Noi siamo la prima
generazione italiana ad aver vissuto questa condizione fin dall’ingresso nella vita adulta.
Il nostro curriculum storico è una sequenza di shock:
1992 – Tangentopoli: crollo del sistema politico e del modello di Stato occupazionale. In
Sicilia significa fine dell’illusione del pubblico come ammortizzatore.
1997 – crisi finanziaria: primo irrigidimento dell’accesso al lavoro.
2001 – 11 settembre: globalizzazione che da promessa diventa minaccia.
Poi:
crisi del 2008,
crisi del debito,
austerità,
pandemia,
inflazione.
Ogni crisi non ha sostituito la precedente: si è sommata. Come osserva Beck, il rischio moderno non
è episodico, ma cumulativo.
L’euro e la svalutazione invisibile della vita quotidiana
L’ingresso nell’euro rappresenta un punto di snodo simbolico. A livello macroeconomico, stabilità.
A livello microeconomico, rottura dell’equilibrio tra salario e costo della vita.
Come nota Luciano Gallino, «la compressione dei salari reali non è un effetto collaterale, ma una
scelta strutturale dei modelli economici contemporanei». La nostra generazione ne è stata la prima
vittima pienamente consapevole.
In Sicilia, dove i salari erano già più bassi, questo ha significato una perdita secca di autonomia.
Non povertà assoluta, ma impossibilità di accumulo, che è la vera base della mobilità sociale.
Abbiamo fatto meno strada dei nostri genitori: la fine del mito
progressivo
Per la prima volta nel secondo dopoguerra italiano, una generazione non supera quella precedente.
Questo dato non è solo economico, è simbolico.
Hannah Arendt ricordava che ogni generazione ha il compito di «rendere il mondo abitabile per chi
viene dopo». Il problema è che noi ci siamo trovati a gestire un mondo che si stava restringendo.
I nostri genitori hanno conosciuto:
carriere lineari,
crescita salariale,
accesso alla casa.
Noi abbiamo conosciuto:
ritardi,
frammentazione,
precarietà.
Non per fallimento individuale, ma per esaurimento del modello di crescita.
Cosa lasciamo ai nostri figli: il nodo morale
Qui il tema diventa etico prima ancora che economico.
Zygmunt Bauman parlava di vite di scarto, non come persone inutili, ma come individui resi
sistemicamente superflui rispetto ai meccanismi dominanti. Il rischio è che questo sentimento venga
trasmesso ai nostri figli.
Che mondo consegniamo?
Un mondo in cui lo studio non garantisce dignità.
Un mondo in cui il lavoro non consente progettualità.
Un mondo in cui la sicurezza è individuale, non collettiva.
Una società che non riesce a promettere futuro, osservava Paul Ricoeur, perde la capacità di
raccontarsi.
Una crisi da dopoguerra: il ponte con i nostri nonni
Paradossalmente, la generazione a cui oggi siamo più vicini non è quella dei nostri genitori, ma
quella dei nostri nonni.
Anche loro hanno vissuto:
scarsità,
instabilità,
ricostruzione.
La differenza è che loro partivano da zero, ma con un orizzonte di crescita. Noi partiamo da un
sistema avanzato, ma in regressione.
Karl Polanyi ci ricorda che le grandi crisi producono sempre una reazione sociale. Dopo il 1929 e il
dopoguerra, quella reazione fu lo Stato sociale. Oggi, quella reazione non è ancora arrivata.
Cosa possiamo ancora imparare da loro
Non soluzioni tecniche, ma posture culturali:
Senso del limite, in un’epoca che ha promesso crescita infinita.
Centralità della comunità, in un sistema che ha individualizzato il rischio.
Dignità del lavoro, anche quando non coincide con l’autorealizzazione.
Nel Mezzogiorno queste risorse culturali non sono scomparse. Sono state semplicemente
marginalizzate.
Conclusione: responsabilità storica
Noi nati negli anni Ottanta non siamo una generazione fragile.
Siamo una generazione iper-adattiva, formata per resistere più che per costruire.
Il grande inganno non è stato credere nello studio o nel lavoro. È stato non ridefinire il patto sociale
mentre il contesto cambiava.
Se non affrontiamo questa frattura, rischiamo di lasciare ai nostri figli un mondo più povero non
solo economicamente, ma moralmente.
E come ammoniva Arendt, «il vero problema non è che il mondo cambi, ma che smetta di essere
trasmissibile».
Oggi, questa è la posta in gioco.
Immagine da Best.com
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