Tredicesima uscita della rubrica ” Ti dipingo così … A tu per tu , a parlar del più e del meno, con …”

a cura di Concetto Sciuto

Essenza e futuro del giornalismo, libertà di stampa, sì/no al campionato: Italo Cucci la pensa così…

Calma e gesso. Abbiamo al telefono, bontà sua, un’icona del giornalismo sportivo e l’occasione è così ghiotta che proveremo ad evitare, schivando una gimkana di tentazioni, di impelagarci in un déjà-vu di domande inerenti a questa o quella squadra, a chi vincerà lo scudetto, a ciò che sarà il campionato di calcio o, meglio ancora, di quel che rimane in questi mesi post corona virus, triturato come cubetti di ghiaccio da aggiungere a una bibita estiva. No…per adesso non c’interessa, il calcio può aspettare; ripetiamo: calma e gesso perché avere la possibilità di parlare di (vero) giornalismo, della sua essenza, della sua crisi, del suo futuro o di un concetto come la libertà di stampa, con un navigato direttore com’è stato Italo Cucci (nella foto insieme al nostro direttore, Francesco La Rosa, in occasione del 60° anniversario di USSI Sicilia) non è occasione frequente, e la locuzione “ubi maior minor cessat” diventa, inevitabile, spirito guida e invalicabile argine su cui incentreremo l’intero colloquio. L’incipit, come tradizione di questa rubrica, è sempre lo stesso: curiosare cominciando dal punto zero della vita del nostro interlocutore, ritornando in quei primi anni dove, nel libro ancora bianco della memoria che raccoglierà le prime esperienze, si è cominciato a scrivere e a strutturare ciò che poi farai da grande.  “Datemi i primi sette anni di un bambino e il resto tenetevelo pure” (Bruno Bettelheime ) e anche in questo caso non c’è stata nessuna deroga a una delle più famose teorie di psicologia infantile, il tutto confermato  dai fatti.  Il periodo era tra i più terribili, gli anni della Seconda Guerra Mondiale che ammantava di lutti, fame e miseria un intero continente e, nel rifugio che li ospitava, c’era anche un bambino di nemmeno cinque anni intento a rovistare tra vecchi giornali diventati suo unico passatempo e dove imparò a leggere ancor  prima che a scrivere: il seme era stato piantato, quella parte incontrollabile che sfugge al nostro libero arbitrio, chiamato destino, aveva svolto egregiamente il suo dovere. A dirla tutta, in questo caso si trattava di un fato un tantino “pilotato” perché: “in casa mia leggevano tutti e così a nove anni lessi “Candido” e mi appassionai a “Tex” un fumetto di cui non ho mai perso un numero e la sua lettura mi ha aiutato non poco a sceneggiare i racconti dove aggiungevo sempre un particolare dell’ambiente”.

Poi s’innescò quell’indomabile desiderio di raccontare ciò che leggeva sui giornali; humus di tutto ciò fu il suo carattere che non accettava le rigide regole che escludevano, in quegli anni di tetragono patriarcato, il diritto di parola a un giovane durante un contraddittorio tra adulti. “Se non mi ascoltano… vuol dire che mi farò leggere e così potrò dire la mia”! Possiamo riassumere in questa immaginaria (ma non tanto!) frase l’architrave su cui poggiò le sue coraggiose, rasenti la follia, future scelte lavorative. Esageriamo? Questo decidetelo dopo aver letto che… cominciata una breve esperienza con un giornale di Rimini (il suo primo pezzo fu una critica televisiva su una delle famose “signorine buonasera”) e dopo enormi sacrifici, tipici di un pendolare in quegli anni post-bellici… era giunto alla desiderata meta degli esami di stato. Ma, completata la prova scritta e prima di quella orale, a seguito di una sua domanda inviata al “Il resto del Carlino”, ricevette una comunicazione che “forse avrebbero preso in considerazione la sua richiesta” solo se si fosse presentato subito a Bologna.

Abbiamo scritto follia? Bene, il futuro direttore ritornerà a casa solo per prendere la valigia, mollando gli esami di maturità per cominciare ciò che farà per tutta la vita: essere parte attiva di un giornale.

E dopo un primo “tour” tra cronaca nera, giudiziaria e bianca dei consigli comunali, nel momento di realizzare il primigenio sogno di “poter dire la mia”, inesorabile entra in azione la spietata legge del contrappasso e l’allora direttore – un tal… Giovanni Spadolini – rintuzzò i suoi “bollenti spiriti” spedendolo nel meno pericoloso mondo dello sport: il calcio, giusto per essere ancora più sicuri.  Una sintetica biografia che ci fa da ottimo viatico per la seconda domanda dove chiediamo se in queste sue scelte, così radicali e passionali, possiamo già intravedere l’essenza del giornalismo. Sì, ma questo è stato solo l’inizio naturalmente, perché ci spiega che un giornalista lo si è dentro e difficilmente è un mestiere che lo si può trasmettere. “Nemmeno i più bravi possono insegnarti concretamente qualcosa” – afferma Italo Cucci senza titubanza – pertanto: pedalare sempre, mai smettere di aver voglia di lavorare, affrontando con passione sacrifici immensi che non saranno mai ripagati nella giusta misura, come ad esempio (indovinate?) chi ha trascorso per sessantaquattro anni tutte le domeniche in redazione e considerato le ferie poco più di un optional.  E per tenere fede a una “superstizione creativa “, ha sempre lavorato il 31 dicembre, il primo di gennaio e di maggio e il quindici agosto. Se tutti questi sacrifici non ti pesano più di tanto, vuol dire che si è sulla giusta frequenza della vera essenza di uno dei mestieri più belli al mondo. L’unico insegnamento forse è proprio questo: emulare lo spirito stacanovista del direttore: il resto verrà da sé!  Poi, come fosse stato spinto da un sesto senso tipico di chi da decenni ha sviluppato un certo fiuto, il direttore Cucci ci anticipa l’altra domanda (“il futuro del giornalismo nell’era del digitale”) e, ancorandosi al precedente amarcord, conclude affermando che: “oggi non raccomando più di fare questo mestiere perché temo che sia finito, temo che siano finiti i giornali in un certo modo e magari nasceranno altre forme di comunicazione”. La sincerità di questa affermazione, la possiamo cogliere nella rimodulazione del tono di voce che muta dall’emozionato al malinconico. Ma “the show must go on”  e così, dopo una forte critica all’università, e a una facoltà in particolare come Scienze della Comunicazione (rea – secondo lui – di “aver massacrato lo spirito della formazione del mestiere di giornalista” creando confusione tra teoria e pratica, cioè tra chi dovrà lavorare per gli uffici stampa e chi dovrà fare il giornalista sul campo), sarà forse il campanilismo a salvare ciò che rimane di una tradizione giornalistica plurisecolare. Il termine campanilismo, usato nella sua accezione migliore, significa dare più spazio alle cronache locali, utili nel contrapporsi alla mastodontica, ma confusionaria, presenza di una informazione globalizzata in rete, con la forza delle notizie che sono “intimamente” più vicine a noi. E, dalla vertiginosa cima della sua esperienza, Italo Cucci è certo che: “in futuro vivranno solo i giornali locali con le loro cronache di “quartiere”, oggi totalmente assenti nelle grandi piattaforme digitali”. Come se non bastasse, con una tempestiva inversione ad u, “il Direttore” ci riporta alla prima domanda, rimarcando ancor più il vero spirito di un giornale che è quello di dare informazioni tematizzandole senza che “ci siano notizie che viaggiano nel nulla del copia e incolla da quotidiani stranieri o, ancor peggio, che arrivino dopo la televisione”. Conferma di quanto detto fino adesso? Dai sei milioni e mezzo di copie siamo giunti a tre e forse stiamo scivolando verso i due milioni, un decremento che dovrebbe indurci a riflettere se consideriamo che il primo dato si riferiva al 1911 con una popolazione semi analfabeta.

Una caduta libera dovuta anche a una forza di gravità che altro non è il modo di fare, oggi, il giornalista… come ad esempio dare l’informazione in forma di comunicazione o arricchire il fatto da un pleonastico contorno folkloristico, un aggiungere più colore che “sapore” dove spesso si “perde il piatto forte”. Questo potrebbe andare bene per un racconto sportivo dove l’opinione, magari faziosa per una partita, rientra nei canoni dell’argomento e la faziosità, per Cucci, è un pregio per questo tipo d’informazione dove non è vietato essere di parte: lo si fa cominciando dalla squadra del proprio quartiere sino alla Nazionale, perché:” l’obiettività è una merce che vendono gli ipocriti e io… sono obiettivo”.

Un’affermazione tra il serio e il faceto che ci introduce, dritti dritti, al concetto di libertà di stampa che vede l’Italia al 43° posto nel mondo su centottanta paesi, un dato statistico che non gli interessa affatto. Anzi, il dibattito di questi giorni, incentrato sul cambiamento di taluni direttori         (leggi “Repubblica”) conclama l’idea che: “la libertà di stampa è un utopia non richiesta da nessuno e i giornali sono in mano a padroni, non più ad editori che una volta si rovinavano per tirare su un giornale”.

Oggi, è solo l’interesse per altre attività imprenditoriali il “primo motore” della carta stampata e, se è sempre stato necessario per un direttore essere d’accordo con l’editore nelle linee generali della politica di un giornale, all’interno di un rapporto fiduciario, “la ritengo una esibizione quella di certi giornalisti che dicono “io sono libero” perché non sono liberi per niente, fanno quello che vuole il padrone e se cambia la proprietà… cambiano all’improvviso la mentalità pur mantenendo l’abilità della scrittura, le argomentazioni  e, in una certa maniera, le idee diventano altre”.

Poi il tema del discorso si allarga, arricchendosi del concetto – quasi impossibile – di tenere separati i fatti dalle opinioni e come i primi, portatori “in pectore” della verità, possono mutare (e lo fanno!) pericolosamente i contenuti in relazione al giornale che li pubblica.  Anche stavolta il riferimento al calcio è un passaggio obbligato, perché un’opinione che modifica un evento sportivo diventa solo merce di dibattito da Bar dello Sport. Cosa ben diversa è nel momento in cui un fatto di cronaca viene “plasmato” a immagine e somiglianza di meri preconcetti.

Il codice deontologico vorrebbe che, almeno, s’indaghi affinché poi si racconti qualcosa che sia simile alla verità affinché, ad esempio, non avvenga un rovinoso scambio tra colpevole e innocente. Nulla da eccepire e dunque proseguiamo, anche se ci accorgiamo di essere molto prossimi alla conclusione di una chiacchierata che ha visto, per forza di cose, un interlocutore che non ha mai titubato in nessuna risposta come se già conoscesse le domande o, addirittura, a volte anticipandole. Una capacità, tra l’intuito e l’esperienza, che stavolta non basta a prevedere la nostra penultima curiosità come sapere, tra i suoi mille e più sogni realizzati, quale sia quello rimasto chiuso nel cassetto di cui ha smarrito la chiave.

“Volevo fare il giornalista politico e non ci sono riuscito ma non mi sono pentito perché, dal punto di vista pratico, ho avuto più soddisfazioni e devo dire che mi sono concesso dei piaceri personali che probabilmente la politica non mi avrebbe dato e forse sarei finito “a padrone nel peggiore dei modi!”

Più che soddisfatti dalle esaurienti risposte, è quasi naturale che la decisione iniziale che ci erano ripromessi di mantenere, come quella di evitare di parlare di calcio, viene meno, considerando anche il contesto mondiale, inimmaginabile, in cui ci siamo ritrovati, alle idi di marzo, in meno di settantadue ore. Pertanto, una domanda emerge, come un fiume carsico, tra tutte le altre scritte in agenda: Cucci è favorevole o contrario alla ripresa del campionato di calcio?

Sì, sì e poi ancora… sì, qualora non fossero stati capiti i primi due! E ci siamo permessi di enfatizzare questa sua affermazione, colorandola un po’, per rimarcare e descrivervi con le parole la fermezza di un tono di voce che va oltre l’essere o meno d’accordo. In questo caso, la passione di chi da oltre sessant’anni vive di sport, ha valicato le rigide paratie di una logica stantia, dicotomica e manichea di scegliere in maniera razionale se giocare o meno. Il problema, contenuto il pericolo sanitario di nuovi focolai, per l’ex direttore non si pone proprio e il paragone con la settima arte è immediato.  “Sono stato tra i pochi che si è battuto per riprendere il campionato, bisogna paragonarlo ad un film interrotto dalla pubblicità: non s’interrompe un’emozione!”.

Oltre la frustata interiore subita da un’emozione vissuta a metà, ci fa notare che sarebbero rimasti in sospeso una quantità di interrogativi che avrebbero potuto spostarsi (così com’è accaduto in Francia) dalla tradizionale lite da bar al tribunale. “Un romanzo lo devi finire prima di cominciare il successivo – afferma – senza conoscere come finisce il vecchio non puoi proseguire con il nuovo”. Con un pizzico di rammarico, non fosse altro per la caratura del nostro interlocutore, comprendiamo che l’intervista è andata ben oltre quanto potessimo sperare e, nel salutarlo, formuliamo l’ultima domanda che prova a cogliere quell’aspetto della sua carriera così ben raccontato nel suo libro “Un nemico al giorno”. Così gli chiediamo se adesso gli manca tanto non avere più nemici. In una battuta frantuma tutto il lavoro fatto per costruire una curiosità che pensavamo potesse, se non metterlo in difficoltà, almeno rallentarne la velocità nella risposta. Inutile. Non ci dà nemmeno il tempo di articolare l’ultima vocale che arriva immediata la replica: “ma io mi cerco sempre i nemici e li trovo sempre e  -di questi tempi – è anche più facile perché ci s’incazza per nulla.  Io non voglio insolentire nessuno ma solo dare, a chi lo merita, un poco del coglione, non di cose gravi ma sempre un po’coglione lo è”. Concordiamo sul fatto che oggigiorno sono tutti un tantino suscettibili e si fa subito ricorso all’avvocato e ti querelano perché “siamo immersi in una società un po’ vigliacca o con la coda di paglia”. Un caloroso abbraccio virtuale, reciproco, conclude la nostra entusiasmante chiacchierata con l’impegno – come richiesto – di inviargli questa intervista al suo indirizzo e-mail. Grazie Italo Cucci! Sono state le tre ciliegine messe su una fetta della storia del giornalismo italiano che abbiamo provato a gustare insieme a tutti voi.

Catania, 18 giugno 2020

Concetto Sciuto per Sport Enjoy Project Magazine

( fonte foto Francesco La Rosa per Sport Enjoy Project Magazine )

Questo articolo è stato pubblicato sulla pagina on-line su www.sportenjoyproject.com