Diciassettesima uscita della rubrica ‘Ti dipingo così … A tu per tu, a parlar del più e del meno, con …’
Emozioni, amore, legami e… sogni: i quattro punti cardinali dell’arte per lo scultore Felice Tagliaferri.
Scultore, non vedente, abile comunicatore, tre elementi che ti fanno comprendere di avere tra la penna, il taccuino e il tuo interlocutore qualcosa di esplosivo: un oceano di umanità racchiuso in dieci dita e con il cuore a fare le veci degli occhi.
Ed è un pomeriggio quasi primaverile che racchiude in una tiepida cornice il nostro incontro, temperatura atipica a metà febbraio ma alle falde dell’Etna spesso è la norma, con il Sole che illumina il sereno volto di Felice Tagliaferri dove la locuzione nomen omen trova, plasticamente, in quel suo sguardo disincantato, un concreto senso.
Così, l’empatia è immediata e si percepisce, fin dai primi scambi di battute, che potremo serenamente attingere in quel pozzo senza fondo delle sue esperienze personali e intime, certi che alle nostre curiosità non ci si girerà troppo intorno, risposte esaustive comprese.
Pertanto, cominciamo a chiedere da dove è scaturita questa passione per la scultura, per scoprire il più classico dei déjà-vu come l’ennesima “folgorazione sulla via di Damasco”, via che, nella sua esperienza, ha un nome e cognome bene preciso: Nicola Zambone divenuto, (forse) a sua insaputa, prezioso Pigmalione del futuro artista Tagliaferri. Nel raccontarvi l’incipit di una storia che potrebbe rientrare, di fatto, in un “bildungsroman” in versione emiliana, dobbiamo riportare le lancette del tempo indietro di ben cinque lustri quando, come ci racconta Felice, il maestro Zambone, scultore di Bologna e docente di Brera, ha voluto fare un esperimento per capire se i non vedenti potevo scolpire forme conosciute, oggetti d’uso quotidiano come coltello, forchetta, forbici, utensili che tocchiamo ogni giorno.
Intercala una pausa Felice, prima di tirare fuori dai cassetti della memoria una frase ad effetto quanto sincera: “Per gli altri fu un’esperienza di vita a me ha cambiato la vita perché ho capito che potevo dare forma alle mie immagini interiori, e da ciò la mia frase preferita è dare la forma ai sogni perché le cose prima si pensano, poi si immaginano e infine si realizzano”.
Sì, avevamo percepito che trovarsi a dialogare con lui sarebbe stata una conversazione fuori dagli algidi schemi di una classica intervista, ma dopo questa prima affermazione il percorso sì è incanalato in un alveo sempre più umanamente fluido.
Un attimo di perplessità, giusto il tempo di comprendere fin dove e cosa possiamo attingere da questo pozzo di sensibilità senza un apparente fondo e, ancora più importante, fare ciò senza ledere questo suo garbo d’altri tempi nei nostri confronti e ben restituito nella pacatezza della voce.
Di conseguenza, iniziamo a spingerci un tantino oltre, chiedendogli, ad esempio, quanto possa aver inciso, il fatto di essere non vedente, in questa sua scelta di vita.
Una sola poteva essere la risposta che inizia con: “Mio padre aveva una ditta di camion e mio fratello faceva il camionista, possibilmente avrei fatto il medesimo mestiere, ma non saprei esaudire questa curiosità non avendo, ovviamente, la possibilità di una controprova!”
Dalla semplicità della risposta si comprende che la domanda non era di rilevante spessore e Felice, pur non vedendo la nostra delusione stampata in volto, ma afferendo a quel grande, quanto raro, dono che è la sensibilità, percepisce questa delusione nell’averla formulata, accettando di buon grado quella successiva se pur un tantino sconveniente.
Così, la nostra curiosità punta dritta a evidenziare un eventuale dissidio tra due sentimenti chiedendogli se fosse stato più soddisfatto nel ricoprire il ruolo di camionista o quello di scultore non vedente.
“Mio fratello dice che sono nato con la camicia e io mi incazzo e dico che la camicia me la sono cucita, lavata e stirata da solo, e sono molto felice perché giro il mondo e tutti i giorni incontro almeno cinquanta persone nuove”.
Basta come risposta per tacere altri dubbi? No, perché segue una nuova affermazione più spiazzante della precedente perché per Felice Tagliaferri, scultore non vedente, la vera ricchezza non è guadagnare diecimila euro al giorno, come nemmeno vivere duecento anni, ma: “La ricchezza di un uomo è l’incontro con l’altro, il sapere creare legami con le persone che incontri”.
In una società edonista e materialista come la nostra, certo si potrebbe fare fatica a dare credito e seguito a queste affermazioni o almeno il tarlo del dubbio, di quanto possano essere attigue alla verità, non può non nascere.
Ma chi era presente nell’ascoltarle ha fugato subito queste perplessità, e così la domanda successiva scaturisce dalla bellezza di questa sua ultima risposta: quale valenza ha la scultura in questi legami?
“Io faccio anche corsi motivazionali per le aziende e per i manager sempre attraverso la scultura, e mi rendo conto che è un mezzo per creare quello che alla fine io desidero: legare e portare in giro amore. Rompere le tensioni tra le persone e far scoprire l’amore della vita e per la vita, proporre l’amore puro”. Oramai la strada è ben tracciata, così si da fondo alla nostra chiacchierata tenendo la barra dritta verso i veri valori che l’arte, opportunamente depauperata da un concetto di mero fine economico, dovrebbe avere, domandandogli se uno degli scopi principali dell’arte sia quello di suscitare sentimenti positivi.
“Esatto, ad esempio nelle mie mostre io obbligo a toccare le mie sculture perché fatte da non vedenti e la sensazione tattile è più forte. Nel momento in cui io prendo le tue mani e le conduco sulla scultura, grazie al contatto fisico, si crea un’emozione diversa, particolare, che arriva dentro te e muove dell’emotività nelle persone e questo è uno dei miei successi: quello di vendere emozioni!”
E quest’ultimo ossimoro diventa prezioso humus per un’altra domanda come quella se, a questo punto, gli pesa non poter vedere le sue sculture.
Un perentorio “no!” ci riporta con la mente alla stessa semi défaillance iniziale, perplessità che diventa certezza quando Felice continua affermando che: “comunque sono io a farle e so che sono bellissime e chi poi le vede alla fine ammira quello che vedo io e il ritorno che ho dalle persone che guardano, acquistano le mie sculture, è lo stesso che ho avuto io, la stessa emozione nel farle”.
A questo punto mutiamo rotta ancorandoci a una domanda più sicura, chiedendogli quale, tra le sue sculture, gli sia piaciuta di più e quale meno.
Nessun dubbio: quella che rappresenta la sua compagna con il figlio quando aveva tre mesi e, ci racconta sorridendo, che quando la porta in giro, oramai da sette anni, la moglie gli mette sempre il cartello “venduta” per evitare che chiedano il prezzo.
Quella che invece gli è piaciuta di meno è l’unica scultura che gli hanno commissionato e che alla fine gli è rimasta lì, invenduta, perché non l’hanno più voluta. E, giusto per ritornare al concetto precedente di quanto poco valore (o forse giusto valore) abbia ai suoi occhi il denaro, gli è dispiaciuto non solo perché gli è stata lasciata, ma perché è l’unica che ha fatto su commissione quando normalmente lavora a suo piacimento. In maniera caustica proviamo a stuzzicarlo: “e su commissione forse hai capito che l’arte non funziona?”
Risposta: assolutamente no, non funziona! Vorremmo aggiungere che la dura legge del contrappasso anche stavolta non ha dato scampo, ma non c’è tempo per l’ennesima amichevole “stilettata” perché un’altra curiosità diventa preponderante, come quella di chiedere se per lui l’arte deve essere autonoma o eteronoma.
“Nessuna delle due: è l’arte che deve dare le leggi agli altri!” Quanta verità in questa riposta che tracima qualsiasi argine mentale che prova a ricollocare l’arte nel posto dove merita, e così una sincera risata d’approvazione s’intercala in questo delizioso dialogo.
Ad esempio, continua Felice, “parlando dell’ultima scultura che ho fatto che sia chiama: “Nuovo sguardo”, e che sarebbe “La Pietà” vista al contrario dove è Gesù che tiene sulle gambe la Madonna e questa ha il viso da bambina, il corpo da donna e le gambe da anziana, ciò che desidero trasmettere come messaggio è la mia visione dell’uomo che deve prendersi cura dei figli, della donna e dei genitori. Questa scultura è stata tirata fuori da un blocco di marmo di pietra grezza, metafora del mio principale obiettivo come quello di girare il mondo per incontrare quegli uomini che decido di cambiare rotta, che vogliono dare una svolta alla loro vita non maltrattando più le donne, cercando con le mie opere di coadiuvare questa concreta metamorfosi”. Quindi l’arte come demiurgo dell’animo umano in un processo di crescita grazie ai suoi variegati messaggi positivi? Sarebbe l’ultima domanda a conferma del ruolo di “dettare le leggi” che dovrebbe avere in sé l’arte, domanda che alla fine decidiamo di non formulare. Felice è già soddisfatto di quella sua precedente affermazione, contornata da un esempio che si rifà al suo ultimo lavoro, e ci sembrerebbe quasi inopportuno interrompere quel tipico sorriso che si tratteggia sul volto di chi sa di aver speso, e di continuare a spendere, bene il suo tempo nel dare forma e sostanza ai propri, e agli altrui, sogni.
Ed è un arrivederci per un nuovo incontro, stavolta nel suo laboratorio nel Cesenatico, la promessa che conclude uno di quei confronti dialettici che ti scalfiscono dentro modellandoti, e il termine non è casuale, nuove prospettive da cui potere ammirare le innumerevoli bellezze che la vita ti offre, basterebbe solo “guardarle” dentro per poterne apprezzare contenuti e forme, per poi, possibilmente, plasmarle su un blocco di marmo, naturalmente.
Catania, 19 febbraio 2021
Concetto Sciuto per Sport Enjoy Project Magazine
( Fonte foto Concetto Sciuto per Sport Enjoy Project Magazine )
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