Nona uscita della rubrica ” Ti dipingo così… a tu per tu, a parlar del più e del meno, con…”
a cura di Concetto Sciuto
Il “cuntu” di un cantastorie, Luigi di Pino a tutto tondo.
di Concetto Sciuto
Come iniziereste voi a descrivere, nel 2020, la figura del Cantastorie? Non vi verrebbe il dubbio, nella migliore delle ipotesi, di essere tacciati come gli ultimi romantici di un vintage musicale un po’ fuori tempo se non, addirittura, rischiare di non essere presi troppo sul serio? Queste erano le medesime perplessità che albergavano in noi prima d’intervistare Luigi Di Pino, uno dei cantastorie più conosciuti (e più bravi) in Sicilia che, in meno di un’ora, è riuscito a rimuovere questi, e altri, dubbi, facendoci ricredere sui tanti luoghi comuni che ammantano una delle più antiche forme di comunicazione, trisavola degli attuali media e social network. Una premessa che ci aiuta a introdurre l’intenso percorso storico sulle sue origini, e sul suo divenire, che il cantastorie catanese, residente a Riposto, ha compiuto sollecitato dalla prima domanda dove gli si chiede quando, e in quale luogo, nasce questo antichissimo mestiere. E in un triplo salto temporale a ritroso ci informa che il primo cantastorie, di cui abbiamo notizie, dovrebbe essere Omero e dopo di lui tutte le varie culture, dall’Africa all’Europa, hanno avuto i loro cantastorie, “perché la storia aveva bisogno anche della musica per essere raccontata”. E da qui, Di Pino, pazientemente, con il suo possente vocione, comincia a descriverci tutto un ginepraio di differenze, a volte sostanziali, come quella tra cantastorie e cuntastorie, a volte magari meno evidenti, ma ugualmente importanti, come gli stili adottati dalle varie scuole. Riguardo la prima differenza, tra canta e cunta, questa sta nel fatto che il primo l’evento lo canta e lo declama, rispetto al secondo che lo “cunta” (racconta) pur sempre declamando e rimarcando molto la sillaba, ma senza musica e, altra peculiarità, questo avviene in Sicilia perché al nord non viene nemmeno declamata. Un esempio di cuntastorie è Mimmo Cuticchio da Palermo, massima espressione della Sicilia occidentale perché, altra differenza tra queste differenze, nella parte occidentale dell’isola c’è una maggiore presenza di cuntastorie, mentre i cantastorie sono più diffusi in quella orientale.
Da questo, diversi sono i canoni da rispettare per essere considerato un vero cantastorie, “un tema complesso dove forse occorrerebbe una legge per identificarlo legalmente” afferma testualmente Di Pino. E qui sgorga il mancato avvocato che abita in lui, considerando la sua laurea in giurisprudenza ma, battuta a parte, una precisazione che ci serve per comprendere meglio la valenza di quello che potremmo definire un vero e proprio mestiere. E rimanendo sempre sul piano del tratteggio delle differenze, stavolta afferendo nell’ambito degli stili tra le varie scuole, Di Pino ci colma l’ennesima lacuna in materia, riguardo i due insegnamenti orali in Sicilia orientale che si basano su due modi diversi di raccontare e che hanno come caposcuola Ciccio Busacca da Paternò e Orazio Strano da Riposto. Ciò che in sostanza li differisce è che il primo andava molto più lento e tiene l’ascoltatore sempre sul filo del rasoio, mentre i seguaci della scuola di Strano eseguono il racconto imprimendo un ritmo più veloce. In ambi i casi, necessaria è la presenza del cartello dipinto dove ogni quadro rappresenta una fase della storia e con l’immancabile bastone a fare da antesignano puntatore laser. E cogliendo un attimo di perplessità nei nostri occhi, derivante da tutto questo guazzabuglio di differenze, l’intervistato non si risparmia con gli esempi ma stavolta… cantando a cappella, un’esibizione per pochi intimi che fa comprendere, in maniera esauriente, la netta differenza tra lo stile di Busacca da quello di Strano, e soprattutto fa emerge, in quella voce passionalmente ritmata, quanto amore ha dedicato e dedica a questo mestiere. E il “nostro” Luigi Di Pino quale delle due scuole avrà scelto? È stata l’inevitabile domanda che, un’insopprimibile curiosità, ci spinge a formulare dopo aver ascoltato, e apprezzato, queste delucidazioni.
“Io sono stato un seguace di Strano ma con elementi di Busacca, e comunque ho apportato delle innovazioni allo stile che sono dettate dal fatto che oggi si vive in una altra epoca e ogni cosa si deve innovare perché tutto si evolve.” Non si poteva riceve risposta più azzeccata e, imparando pian piano a conoscerlo, anche sincera, una risposta, inoltre, che potremmo riassumere nel più classico “panta rei” (tutto scorre) considerando questo suo adattarsi ai mutamenti ma rimanendo ancorato alle radici delle tradizioni.
E provando a percorrere questa ondivaga scia delle trasformazioni, poniamo la più classica delle domande: quali storie si cantavano ieri e quali oggi? Dalla risposta che riceviamo, più che una scoperta, otteniamo una sorta di conferma, tirando fuori ciò che risiede in quei cassetti della nostra memoria rimasti chiusi per anni, distratti come siamo dal futile virtuale dei nostri smartphone. Perché, ci conferma Di Pino, “è chiaro a tutti che la funzione dei cantastorie di ieri è molto diversa rispetto a quella di oggi.” Nei primi decenni del secolo scorso, con i mezzi di comunicazione di massa ancora agli albori e a disposizione di pochi privilegiati, questa figura era da considerarsi un vero e proprio cronista del suo tempo. “Nel loro massimo splendore, il cantastorie lo ritrovavi in ogni angolo della Sicilia, giravano di paese in paese, l’incontravi dove c’erano feste paesane o all’uscita di una chiesa: in pratica erano ovunque.” Mettevano le storie in metrica e in musica, con gli immancabili cartelli dipinti da loro o da altri e poi…era tutto un raccontare gli eventi, perché le persone erano avide di notizie, volevano conoscere i fatti, soprattutto di cronaca, i più richiesti erano quelli scabrosi, e a ben pensarci, sotto questo punto di vista, nulla è cambiato. Invece, oggi la funzione del cantastorie è diversa, “utile prima di tutto a mantenere una antica tradizione intrattenendo il pubblico con qualcosa della nostra terra, e ben venga se il pubblico che ascolta è formato anche da turisti, un modo originale per trasmettere parte della nostra cultura antica fuori dai ristretti confini isolani.” E adesso proviamo a scoprire chi si cela dietro la figura del cantastorie che ci sta allietando da quasi mezz’ora con queste fascinose spiegazioni, chiedendogli: chi è l’uomo Luigi Di Pino e com’è arrivato a fare questo mestiere? Domanda immancabile ma con il pericolo d’inabissarci in una risposta aggrovigliata, considerando il suo sinusoidale percorso di vita artistica. Difatti, ci racconta Luigi che si sente “una freccia scoccata in una direzione che poi è finita in tutt’altra parte”, quella del cantastorie appunto, cominciando dagli studi di giurisprudenza che ha momentaneamente abbandonato, per dedicarsi alla musica e al rock psichedelico, per poi decidere di fare il cantastorie a tempo pieno riuscendo ugualmente a concludere, per diletto, gli studi universitari. “Oggi mi dicono che io sono specializzato nelle storie dei Santi, storie che spesso sottopongo a miei rifacimenti con i cartelli dipinti da me.
Inoltre, racconto su richiesta anche le storie delle persone comuni, ad esempio, di due prossimi sposi narro i fatti salienti della loro vita, come si sono conosciuti, quando si sono fidanzati etc. componendo in rima baciata ma anche in sestine e endecasillabi”. E non basta, perché la sua creatività ha così ampi orizzonti che queste ricostruzioni narrative comprendono anche aziende che festeggiano i loro anniversari della fondazione o imprenditori che declamano i loro successi ma anche, roba da non crederci, ha pure raccontato le origini del… tortellino! Ma Luigi è presente anche nelle scuole grazie ai corsi PON ed è perfino autore di un musical dove narra circa trecento anni di storia di Giardini Naxos, un artista così eclettico tanto da… ricreare un vero funerale! Poi, ci racconta di alcune sue sortite all’estero, dalla Svizzera fino in Australia, abbracciando l’immancabile comunità di siciliani sparsa nel mondo, immaginando quante (belle) emozioni è riuscito a regalare ai nostri corregionali all’estero, grazie a una chitarra e a dei quadretti, per giunta dipinti da lui.
Ciò non significa che disdegna le piazze, ma oggi il lavoro è vario con un pubblico che spazia in tutte le fasce d’età: bambini compresi, e pertanto bisogna adattarsi ai tempi che mutano. L’arte di arrangiarsi? No davvero, e lo diciamo esenti da goffa piaggeria, perché solo chi sente dentro di sé il senso dell’essenza di questa forma di comunicazione a contatto con il pubblico, nel pieno senso del termine, poteva sperimentare nuovi contenuti, tanto da diventare oggetto di tesi di una laureanda palermitana. A questo punto, proviamo a toccare la parte più “debole” di quest’arte, quel nervo scoperto chiamata lingua siciliana, chiedendogli se oramai possiamo considerala una lingua vernacolare. Pochi secondi di titubanza per tirare fuori una risposta che non è il consueto “assolutamente no”, seguito da un ancor più, retoricamente, tradizionale: “la nostra lingua è immortale, famosa in tutto il mondo etc. etc.” Ma ciò che otteniamo è un più veritiero: “di certo non è l’inglese e nemmeno lo spagnolo, la nostra è una lingua che riguarda sempre un numero ridotto di persone e inoltre il siciliano evolvendosi, rispetto al passato, si è molto italianizzato e lo si parla molto meno. In ogni caso fa parte del corso naturale delle vicende umane, perché ogni lingua ha una nascita e una morte e non ha mai resistito più di duemila anni.”
Originalità nella risposta che apprezziamo tanto, suffragata però da un rigurgito di orgoglio siciliano quando ci ricorda che in ogni caso, come affermava Buttitta: “un popolo è servo proprio quando gli rubano la lingua”. Da questo diventa quasi un “dovere” utilizzare, durante gli spettacoli, alcuni termini antichi, e comunque il significato finale di ciò che si vuol comunicare, anche se non traducibile letteralmente, arriva ugualmente, in caso contrario penserà lui a spiegarne il senso. Altra precisazione è che, fondamentalmente, i temi trattati dal cantastorie, per il grande pubblico, sono rimasti simili a quelli del passato come i racconti di cronaca nera, quali la Baronessa di Carini, il bandito Giuliano ma anche storie di santi. E qui Di Pino ci tiene a sottolineare che le storie le scrive in un siciliano “di oggi”, giusto per farsi capire. Mentre, per ciò che riguarda la “tecnica” della narrazione, ci chiarisce che il racconto deve essere una quasi nenia con parole semplici nello stile, senza fare accordi con cambi di tonalità, evitare, insomma, eccessive variazioni musicali sul tema. La parola si deve appoggiare su quel motivo facendo sì che ci si concentri su di essa, affinché il racconto si ricrei in chi ascolta, senza che lo stesso esca dalla sua mente. Pertanto, la musica è utilizzata per accompagnare la parola e per ridestare l’attenzione dell’ascoltatore quando, in certi momenti del racconto, si affaccia il rischio che possa scivolare nella fase di sonno. L’attenzione dell’ascoltatore non va tenuta nello stato di veglia, bisogna quasi ipnotizzarlo, provare a mantenerlo in quella fase tra sonno e veglia chiamata trance. L’autentica arte del cantastorie consiste nel riuscire ad accompagnare l’ascoltatore in un viaggio mentale, proiettando un film all’interno della sua immaginazione. Alla fine di questa ideale proiezione, l’ascoltatore, tornando alla realtà, è come se avesse vissuto veramente quella storia, perfino anticipandone di qualche istante il momento finale. Restiamo ammutoliti davanti a una spiegazione così semplice di un’intricata trama che fluttua tra psiche, immaginifico e tradizione di un’arte antica come l’uomo che solo un cantastorie poteva descriverla così bene. Poi, punzecchiato dalla domanda se rifarebbe tutto ciò che ha fatto fino adesso, la risposta è un immediato sì, accompagnato da un: “rifarei tutto quello che, artisticamente parlando, ho fatto perché è stato propedeutico per ciò che riesco a fare oggi e per quello che ho progettato di fare per il futuro.”
Progetto futuro, ci confida, che comprenderà, finalmente, la realizzazione di un suo sogno, quello di mettere in scena un musical che utilizzi anche il cantastorie come narratore esterno che racconta fatti realmente accaduti, alternando diverse forme di comunicazione: dalla recita teatrale alla danza, video compreso.
E giungiamo alla fine di questa avvincente chiacchierata dove, considerando l’odierno contesto sociale che ha strutturato, e sta strutturando ancor più, il suo futuro tecnologico sui nativi digitali e sul potere della rete, una domanda è quasi “d’obbligo”: a quale media, nuovo o vecchio che sia, o a quale social possiamo paragonare, oggi, l’arte del cantastorie? Solo un istante di perplessità interrompe l’accattivante loquacità di Luigi Di Pino, che trova nella sua indomita creatività una di quelle risposte che coniugano, parimenti, verità e amore per questo mestiere. Difatti, ci fa notare che, al netto della differenza sul piano dei contenuti delle notizie di cronaca, oggi non più confrontabili per ovvie ragioni, il cantastorie, rispetto ai vecchi ma anche ai nuovi media e ai social, ha senza dubbio il suo punto di forza nella sua indiscutibile valenza comunicativa quasi sinestetica: dagli occhi alla mimica facciale, passando dagli altri sensi, è un’arte che non la si può paragonare a nessuno media, social compresi, dove è vero che puoi interagire, ma la presenza, fatta da sguardi e dal tono di voce, che rappresenta ben il 36% dell’appeal con lo spettatore, non lo si può riprodurre con nessun moderno mezzo di comunicazione e quindi un confronto non è pensabile. E inoltre, aggiungiamo noi, il cantastorie, essendo stato l’antesignano di tutti i media e i moderni social, vive di luce propria e al massimo sono gli altri che dovrebbero paragonarsi a lui. E di quest’affermazione Luigi Di Pino è stato il primo ad esserne felice, e ne siamo certi non fosse altro per l’ampio sorriso, e la calorosa stretta di mano finale, con cui ci ha salutato.
Catania, 2 febbraio 2020
Concetto Sciuto per Sport Enjoy Project Magazine
( fonte foto google immagini catanianews.it )
Questo articolo è stato pubblicato sulla pagina on-line su www.sportenjoyproject.com